BH
I
Tutto cominciò su un aereo Jumbo della British Airways, linea Londra- New York.
“Mi chiamo Robert”, disse un uomo sulla sessantina, assai calvo e con il naso pronunciatamente all’insù, incrociando lo sguardo di reb Yossef. I due avrebbero trascorso molte ore uno accanto all’altro e tanto valeva ammazzare la noia con quattro chiacchere. La conversazione prese ben presto una piega amichevole, finché, alquanto rapidamente, i due uomini trovarono un punto che li accomunava.
“Vedo che è ebreo”, disse Robert e reb Yossef annuì. “Anch’io lo sono, anche se non ho nulla a che fare – ma proprio nulla – con la religione ebraica”.
Da quel momento la conversazione si volse verso tematiche filosofiche, quali la fede e i sentimenti umani.
La hostess passò fra i passeggeri distribuendo i famosi (o famigerati) vassoi bollenti del pasto caldo. Reb Yossef notò immediatamente che quello del suo compagno di viaggio era tutt’altro che kashèr.
In cuor suo non se la sentiva di rimanere indifferente e di ignorare il fatto, anche se non sapeva esattamente come reagire e se reagire.
Alla fine si fece coraggio e, schiarendosi la gola, si rivolse a Robert: “Forse non è del tutto corretto da parte mia intromettermi nei suoi affari, ma... ehm... prima di uscire di casa mi sono preparato del cibo per il viaggio. Se lo desidera, posso darle con piacere il mio pasto kashèr e mangiare ciò che mi sono portato da casa”.
Robert fissò reb Yossef negli occhi, impugnò la forchetta con forza e, con un gesto di sfida, la conficcò nella carne che aveva nel vassoio.
“No! Le ho già detto che non ho nessun legame con la religione ebraica e che non mi interessa affatto osservarne le leggi. Ce l’ho con D-o!”. Poi aggiunse: “Mangio cibo tarèf perché ce l’ho con Lui!”.
Reb Yossef interrogò Robert con lo sguardo, in attesa che continuasse. Senza rendersene conto, questi posò la forchetta sul vassoio e prese nervosamente a tamburellare con le dita sul piano estraibile su cui era appoggiato il vassoio, che ormai pareva interessargli ben poco.
“Ce l’ho con Lui” proseguì “perché non ha protetto il mio Itzkel, il mio figlio unico”.
Reb Yossef capì che Robert serbava un dolore profondo nel cuore, cui ora dava in qualche modo sfogo. Annuì, in attesa che l’uomo continuasse il suo racconto.
“Abitavamo a Lodz, mia moglie, io e il nostro figlio unico di otto anni, Itzkel. Fino allo scoppio della Shoà conducemmo una vita alquanto serena, ma poi la situazione precipitò molto rapidamente. Quando iniziammo a capire la gravità del pericolo che ci minacciava, era ormai troppo tardi per fuggire. I nazisti ci rinchiusero nel ghetto.
“Un giorno i soldati irruppero nel ghetto e fecero uscire un gruppo di ebrei composto da uomini, donne e bambini. Ci condussero a un grande campo, fuori città, e ci separarno brutalmente, mettendo gli uomini da una parte, le donne da un’altra e gli anziani e i bambini da un’altra ancora. Poi ordinarono a noi uomini di scavare delle fosse profonde.
“Scavammo per diverse ore, quando improvvisamente udimmo una serie di spari. Evidentemente qualcuno aveva tentato la fuga e i soldati spararono addosso non solo a lui, ma anche a un gruppo di donne e bambini che si trovava in prossimità. Il mio cuore cessò per un attimo di battere quando vidi Itzkel accasciarsi al suolo. E quando corse verso di lui per soccorrerlo, anche mia moglie fu ammazzata sul posto”.
Robert tirò un lungo sospiro. Era evidente che il racconto di questa terribile storia gli costava grandi sforzi e lo rendeva folle di dolore.
“Ce l’ho con Lui” ripetè “perché mi ha portato via Itzkel”.
Reb Yossef aveva ascoltato attentamente la storia e ne era rimasto colpito. Ci volle non poco tempo finché il suo compagno di viaggio si riprese. Reb Yossef tentò delicatamente di discutere sulla Shoà dalla perspettiva di chi ha fede e crede nella Provvidenza Divina. Con questa breve e penosa discussione la conversazione fra i due giunse a termine.
L’aereo atterrò all’aeroporto JFK della New York e i due compagni si separarano, ciascuno per la propria strada.
II
Trascorsero sette mesi, giunse il mese di elùl e si avvicinarono i giorni del giudizio. Yerushalayim, come ogni anno, si pregnò di una santità unica, propria solo alla regina delle città.
Fu proprio in quei giorni che Reb Yossef giunse a Yerushalayim, come usava ormai da molti anni, per trascorrere i giorni santi nella città a lui tanto cara. Occupava da anni un posto fisso in una delle sinagoghe di Katamon, dove partecipava regolarmente alle preghiere di Rosh Hashanà e di Yom Kippùr.
III
Yom Kippùr. La profonda serenità mista a grandiosa riverenza e timore che regnavano a Yerushalayim erano quasi tangibili. Le vie della città erano immerse nel silenzio, per una volta del tutto esonerate dal viavai di autobus e vetture. Solo le preghiere che eccheggiavano dalle sinagoghe rompevano l’incanto, ricordando agli ebrei, anche ai più lontani, che in quel giorno le porte del Cielo sono aperte ad accogliere le richieste e le suppliche di chiunque solo desideri avvicinarsi ad Hashèm.
Nelle sinagoghe di Katamon, dove si svolge la nostra storia, come ogni anno si unirono alle preghiere molti “ospiti”, i cosiddetti ebrei del Kippùr. I loro tallitòt come nuovi, ancora candidi, con le pieghe ben accentuate, lasciavano intendere che erano rimasti chiusi per tutto l’anno in chissà quale armadio.
Dopo la lettura della Torà, il gabbày della sinagoga annunciò una pausa di un quarto d’ora prima della preghiera di Yizkòr[1] per consentire anche a coloro che abitavano lontano di giungere in tempo in sinagoga.
Reb Yossef si tolse il tallìt e uscì dalla sinagoga a prendere una boccata d’aria. L’uomo seduto sulla panchina vicino alla sinagoga non avrebbero attirato la sua attenzione, se non fosse stato per la sigaretta che fumava con palese ostentazione. Quando scorse l’ebreo ortodosso, con indosso il kittel[2], l’uomo mise la sigaretta ben in mostra, con un gesto provocatorio che non lasciava spazio a equivoci: lo scopo era di offendere, infastidire, profanare e provocare l’ebreo che gli stava passando davanti.
Reb Yossef quasi lo ignorò proseguendo oltre, quando, come un fulmine, un’immagine molto chiara gli elettrizzò la mente. Il volto di quell’uomo gli era ben impresso nella memoria. Si voltò, lo esaminò per qualche istante e sì, era proprio Robert.
Senza pensarci due volte, reb Yossef gli tese le mani e, con una grande sorriso sulle labbra, lo salutò: “Sholem Aleychem, Robert!”.
Ora anche Robert lo aveva riconosciuto. Lanciò una rapida occhiata di scherno alla sigaretta, poi a reb Yossef, come per dire: “Ebbene, che cosa’ha da dire su questa?”.
Reb Yossef ignorò la sfida. “Oggi è Yom Kippùr! Forse desidera entrare con me in sinagoga, a pregare un po’? È un giorno speciale, il giorno più santo dell’anno...”.
Erano le parole che Robert si aspettava. “Gliel’ho già detto che ce l’ho con Lui e che non voglio averci nulla a che fare. Da quando ci siamo conosciuti quel giorno, in aereo, Itzkel non mi è ancora stato restituito...”.
Dalle parole di Robert traspariva un’ostinazione tipica di chi ha sofferto profondamente e serba in cuore un rancore profondo.
Reb Yossef, dal canto suo, non si mosse, profondamente addolorato. Pensava alle barriere che impedivano a quell’anima ebraica a congiungersi al Creatore.
“Se è adirato con D-o, è affare suo”. Reb Yossef ora tentava di giocarsi un ultimo jolly. “Ora però stiamo per recitare la preghiera di Yizkor, in cui si commemorano le anime dei defunti, dei martiri e delle vittime, chiedendo che vengano rettificate e che godano di eterno riposo. Lei aveva un figlio unico e inifinitamente caro. Per quarant’anni non lo ha mai ricordato in nessuna preghiera e forse ora è giunto il momento di entrare in sinagoga e di recitare lo Yizkòr e la preghiera di “Kel malé rachamìm” in sua memoria. Solo una piccola preghiera, per concedergli riposo nei mondi superiori”.
Robert reagì con un gesto che valeva più di mille parole, ma l’espressione di disprezzo era ormai svanita. Reb Yossef se ne rese subito conto e cercò nuovamente di convincere l’amico. Capì infatti che era in corso una lotta senza quartiere fra la ragione e i sentimenti più profondi.
Trascorsero alcuni minuti e Robert, senza dire una parola, si alzò, gettò la sigaretta e seguì l’amico. In sinagoga, reb Yossef lo fece accomodare al proprio posto. Poi si diresse verso il chazàn, che si trovava già sulla tevà, pronto per riprendere le preghiere. Reb Yossef gli espose brevemente la storia di Robert: “C’è qui una persona che non ha messo piede in sinagoga per quarant’anni. Ora ha acconsentito a farlo per commemorare il suo figlio unico, morto nella Shoà. La prego, reciti per lui un “Kel malé rachamìm” particolarmente commovente”.
Il chazàn annuì, lasciando intendere che avrebbe provveduto. Le preghiere ripresero e il “Kel malé rachamìm”, recitato dal cantore con tanto fervore e sentimento, commossero profondamente tutti i presenti.
Reb Yossef osservò Robert con la coda dell’occhio. Visibilmente pallido e sconvolto, teneva con forza il leggìo sforzandosi di rimanere in piedi. Reb Yossef era lieto di essere riuscito ad aprire una breccia nelle mura che cingevano il cuore dell’amico.
Quando giunse al nome del defunto, il chazàn volse uno sguardo interrogatorio a Robert, che si affrettò a rispondere: “Yitzkhak ben Reuven”. Il chazàn chiuse gli occhi e ripetè ad alta voce: “...l’anima di Yitzkhak ben Reuven”. Quindi proseguì la preghiera, quando improvvisamente si interruppe e guardò nuovamente Robert. Poi proseguì fino alla fine.
Al termine della commemorazione dei defunti, il chazàn scese dalla tevà e si incamminò con passo deciso verso Robert. Era visibilmente sconvolto.
“Itzkowitz?”, chiese con un’unica parola.
Robert lo fissò e annuì.
“Papà?!?” esclamò il chazàn, in tono interrogativo, incredulo e sicuro allo stesso tempo. Robert si ritrasse di un passo, fissò il chazàn e fu allora che lo riconobbe.
“Oh, Itzkel!”, esclamò, prima di perdere i sensi.
IV
Di questa incredibile storia si parlò a lungo nel quartiere. Come dopo un sonno lungo decenni, come al risveglio da un sogno incredibile, ben presto emersero i dettagli della meravigliosa vicenda. Itzkel raccontò al padre che mentre la madre era rimasta uccisa sul colpo dagli spari dei soldati tedeschi, lui era rimasto solo lievemente ferito.
Per quarant’anni padre e figlio erano rimasti separati e lontani l’uno dall’altro.
Ora, nel giorno in cui i figli si ricongiungono a loro Padre, si erano ritrovati per sempre.
Storia raccontata da rav Yossef Hazan di Manchester